L’ultimo tricolore
Il 4 luglio cade la Repubblica

di Riccardo Bruno

Mazzini si trascinava per le vie di Roma a capo scoperto, l’abito in disordine, la cravatta disfatta. Gli occhi febbrili sono segnati dall’insonnia, il colore del viso è terreo.
La Repubblica è caduta, i suoi compagni più cari, la migliore gioventù italiana, Manara, i Dandolo, Mameli, Emilio Morosini sono già sepolti da ore. Gli hanno raccontato della carica di Angelo Masina al cancello di villa Corsini. Il comandante dei “lancieri della morte” bello, fiero, sul suo cavallo la sciabola in pugno a menar fendenti contro le baionette francesi che lo circondano. Garibaldi aveva ragione. Non si poteva affidare la difesa di Roma a un generale come Roselli. Quello vagolava per Monte Mario, mentre Oudinot attaccava il Gianicolo. I francesi andavano affrontati in campo aperto, mentre erano in manovra. Lui, Mazzini, invece, aveva avuto torto nel confidare che la Francia non avrebbe attaccato. L’ideale rivoluzionario, le repubbliche sorelle. La Francia invece era oramai solo una potenza imperiale, un despota imbroglione come guida, erta a protettrice del papato, un nemico storico della Rivoluzione.
Il 5 luglio, l’ultimo tricolore, appeso in via del Corso, era come un cencio sbattuto nell’afosa calura del mattino. Gli ufficiali delle avanguardie dei cacciatori lo presero come trofeo della conquista. Mazzini non ha firmato la resa, si è dimesso e rimasto a Roma. Bene in mostra, percorre le vie polverose, entra negli ospedali, tiene le mani ai feriti, non mangia, non beve, nella notte deambula ancora. Chiunque potrebbe tirargli una palla, Mazzini è solo e indifeso. Il papa ha già chiesto ai francesi la sua testa. Il ministro degli Esteri di Napoleone Terzo, lo stesso Alexis de Tocqueville, che ha descritto il governo mazziniano al Parlamento di Parigi come un’ orda di sanculotti sanguinari, ora, incredibilmente, lo protegge. Tocqueville si è ricreduto in fretta: il governo mazziniano era mite. La popolazione lo apprezzava, la sua amministrazione, lo si legge persino sui quotidiani britannici conservatori, oltre che sul “Times”, la migliore conosciuta negli Stati italiani. Il popolo romano guarda con nostalgia e compassione ai vinti. Quando i francesi hanno attaccato, sono tanti i borghesi che si sono uniti alla battaglia del Gianicolo, magari disponendo di un semplice coltello da cucina, tale era il sentimento di indignazione per lo scempio che si compiva. Mazzini ha perso tutto, vorrebbe la morte ed entra nella leggenda. Non lo capisce fino a quando si convince, dopo una intera settimana di vagabondaggio, ad accettare il passaporto offertogli dal console americano. Il governo del Papa sta per tornare, a Piazza del Popolo il boia allestisce la ghigliottina, sarà prossimo un massacro e Tocqueville non potrà impedirlo. Roma è perduta, la battaglia repubblicana continua. La Francia stessa è scossa da un fremito di vergogna. I primi a sostenere Mazzini sono i suoi figli più celebri: Edgar Quinet, Eugene Sue, Victor Hugo. In Inghilterra Thomas Carlyle, si leva il cappello davanti all’eroismo mazziniano che ha combattuto uno a cento contro l’odiato francese. Lord Palmerston, che non ha nessuna simpatia per la causa repubblicana, si accorge di come questa sia divenuta popolare, grazie alla battaglia mazziniana. Marx, si contorce nelle spire della gelosia. Un tentativo rivoluzionario andato male è sempre meglio di chi non ha mai tentato un bel niente. Nietzsche disprezza ogni forma di vita attuale e ha il mito della tragicità greca. Incrocia Mazzini come compagno di viaggio su una carrozza delle Alpi svizzere. Lo guarda, gli parla appena, ma subito lo eleva alla stessa altezza di Edipo. Mazzini gli appare più di un rivoluzionario, è un mistico. E in parte Nietzsche lo comprende, perché Mazzini considera il sentimento religioso più forte di quello politico ed è il sentimento religioso che lo fa sopravvivere alla sconfitta romana. Il successo internazionale, gli sarà comunque utile. La Svizzera lo protegge, l’Inghilterra lo adotta, l’intelligenza democratica francese lo foraggia. Solo in Italia il contraccolpo è stato grave e tutto a vantaggio della monarchia. Mazzini lasciata Roma, in cuor suo, sa di aver perso l’occasione. Non tornerà mai più. Al tavolo di lavoro in cui siede da esule, nell’ombra più cupa, scorge un timido segno di conforto, quello della fine del potere temporale del papato. Un fulmine chiuso nella sua mano che pure un giorno, lontano, dovrà abbattersi.

Roma, 4 luglio 2014